Intervista a Benedetta Cascio, General Manager di Red Public, per la rubrica settimanale Woman4Woman

Women 4 Women: rubrica settimanale di GirlsRestart
L’agenda che si riserva di dar voce a tutte quelle realtà inclusive che possano essere portatrici di ispirazione.

Ciao Benedetta, vuoi raccontarci di Red Public? Quando è nata?

Grazie Vanessa per l’opportunità.
È sempre un piacere parlare un po’ di Red Public e di temi così importanti come quelli dell’inclusione e dell’uguaglianza.
Red Public è una società di consulenza strategica, abbastanza giovane. È nata 4 anni fa circa con un intento dichiarato fin dalla nascita: supportare e sostenere la leadership femminile nel mercato della consulenza. Si tratta di un settore ancora tradizionale in cui, dal nostro punto di vista, era necessario dare un segnale forte. Quindi, siamo nate con questo obiettivo e, ad oggi, abbiamo un team composto al 100% da talenti femminili.

Di cosa vi occupate?

Ci occupiamo di accompagnare i nostri clienti nell’intraprendere percorsi e nel definire strategie per rendere le organizzazioni sempre più inclusive e proattive.
In questo contesto, uno degli obiettivi principali è rappresentato dalla riduzione del gender gap nelle aziende e, più in generale, nel creare organizzazioni che possano effettivamente includere, sostenere e valorizzare tutti i talenti.

A proposito di inclusione: cosa significa per voi, ma anche, cosa significa per te Benedetta?

Parto dal fatto che a me e al team di Red Public non piace molto parlare di diversity, un termine che viene sempre associato a quello dell’inclusione. Non ci piace puntare il dito sul tema della diversità perché riteniamo che sia proprio quello il problema. Lo stesso termine inclusione accende il riflettore sullo squilibrio che si crea tra chi include e chi viene escluso.
Per questo motivo, noi preferiamo sempre parlare di uguaglianza, e quindi di percorsi di uguaglianza che siano in grado sia di azzerare le differenze che di valorizzarle.
Un approccio che riesca a guardare oltre. In questo mi ritrovo molto.
Noi cerchiamo sempre di mettere al centro l’individuo con le sue caratteristiche, non con le sue differenze, e di fare in modo che ciascuno, nel nostro caso le organizzazioni aziendali, possa essere libero di esprimere il proprio talento con le sue peculiarità, senza essere giudicato.
Lavoriamo, quindi, per creare un ambiente in cui questo sia possibile senza sottolineare la diversity ma valorizzando le qualità. Siamo convinte che il talento sia ovunque e che stia a noi superare quei pregiudizi, quei bias inconsci che ciascuno di noi ha per poi consentire ad ognuno di esprimersi.

Ti va di farci qualche esempio su situazioni al riguardo?  

L’apportare il proprio contributo attraverso il potenziale, inteso non come qualcosa che ci differenzia ma come qualcosa che ci rende chi siamo, unici e utili.
Sono convinta di questo.
È vero che oggi nelle organizzazioni, ma in tutti noi, agiscono dei bias inconsci o anche dei pregiudizi che ci spingono in qualche modo a giudicare l’individuo che abbiamo davanti per alcune sue caratteristiche di genere, di provenienza, di diversa abilità e così via. Intraprendere dei percorsi per superare queste barriere non è facile. Tuttavia, esistono degli strumenti e delle metodologie che ci aiutano.
Pochi giorni fa mi è capitato di leggere un articolo molto interessante che parlava della Filarmonica di New York che, attualmente, si trova ad avere più musiciste donne che uomini.  La motivazione dietro tutto questo è che per la prima volta le audizioni sono state fatte al buio. A musicisti e musiciste veniva chiesto di esibirsi dietro a un telo e, perciò, chi doveva giudicare le abilità tecniche non sapeva chi stesse suonando dall’altra parte.
Questo è un esempio importante che mi ha fatto sorridere perché noi, in Red Public, spesso parliamo con le aziende di concetti come il recruiting inclusivo. Il concetto è quello di non farci fuorviare dall’idea che ci possiamo fare di una persona sapendo solamente chi è, quanti anni ha, qual è il suo genere di appartenenza e da dove viene.
Questi esaminatori hanno voluto ‘non vedere’. Hanno voluto solo sentire il talento e hanno poi selezionato i musicisti che ritenevano più meritevoli. La diretta conseguenza non credo sia stato un caso, è che per la prima volta nella storia della Filarmonica c’è una parità tra donne e uomini. La trovo, quindi, un’evidenza molto significativa.
A me, personalmente, il recruiting inclusivo piace molto di più di concetti come recruiting al femminile (selezione al femminile). Infatti, non penso che la strada più virtuosa sia quella di valorizzare le donne solo perché donne, ma quella di cercare di superare i nostri pregiudizi, di valorizzare, individuare e sostenere il talento e, infine, di creare degli ambienti in cui certe categorie possano effettivamente lavorare bene.
In alcune organizzazioni ci sono degli svantaggi per la leadership femminile. A mio parere, bisogna affrontare questo problema creando degli ambienti dove il talento possa essere individuato e sostenuto. Quello della Filarmonica di New York mi è sembrato un esempio emblematico.

Questo cambiamento richiede del tempo. In questo periodo siamo, invece, in una realtà che vuole velocizzare l’inserimento delle donne, ma l’azienda stessa per una vita intera potrebbe non essersi mai preoccupata di formare in un certo modo le dipendenti donne. Per questo motivo, da una parte spesso si liberano posizioni di leadership senza che nessuno possa ricoprirle, dall’altra spesso vengono ricoperte ma senza una formazione adeguata o, ancora, la persona che ricopre quella posizione, facendo parte di una minoranza, continua a non essere integrata.

Hai perfettamente ragione.
Infatti, è un processo molto difficile che alcune organizzazioni affrontano in maniera superficiale. Non è solo un tema di numeriche che, seppur importanti, devono considerare tutto il percorso professionale. C’è la vita nell’organizzazione, ed è importante che le aziende lavorino sugli strumenti che hanno a disposizione per rendere le aziende effettivamente inclusive.
Quando parliamo di donne, secondo me, sono tanti gli strumenti che possono essere introdotti per rendere la permanenza nell’azienda il più proficua possibile e che permettono di conciliare le due componenti della nostra vita. Oggi, rispetto a due anni fa, sono molto più diffuse alcune iniziative come, ad esempio, lo smart working. Quest’ultimo rappresenta uno strumento molto potente per sostenere la sinergia tra la vita professionale e privata.
Noi, in Red Public, cerchiamo di mettere in campo questi strumenti, a partire dalla nostra organizzazione interna. Cerchiamo di non discriminare mai le nostre risorse sulla base delle responsabilità familiari e/o delle esigenze temporanee che ci possono essere nella vita di ciascuno di noi come, per esempio, il family caring. Offriamo, quindi, degli strumenti di cui le dipendenti hanno bisogno per poter vivere la propria vita e, allo stesso tempo, operare sul lavoro.
Inoltre, esiste un tema culturale che stiamo affrontando con alcune aziende.
Spesso, bisogna aiutare le donne a superare le barriere culturali che hanno in quanto donne come, ad esempio, il timore e la paura di non riuscire. È importante sostenerle nel loro percorso verso la leadership, aiutarle nell’intraprendere un cammino di consapevolezza del proprio valore che hanno anche nel momento in cui sono al lavoro, non solo in famiglia. Infatti, ancora oggi, culturalmente, siamo sempre portati a pensare alla donna come l’anima e il pilastro della famiglia. Talvolta, molte donne faticano sia a conciliare questa idea culturale con la loro vocazione professionale sia a credere che la soddisfazione da un punto di vista professionale possa avere valore anche per la famiglia stessa.
Quindi, dobbiamo muoverci in due direzioni. Da un lato, servirsi degli strumenti: per esempio lo smart working, ma anche dei sistemi di welfare che permettono di avere ausili e supporti anche nella gestione della casa e della famiglia. Dall’altro, lavorare sulle barriere culturali aiutando le donne a rendersi conto del proprio valore e ad acquisire consapevolezza.
In questo contesto, uno dei problemi più grandi che hanno alcune organizzazioni è rappresentato dal timore che le donne provano nell’accettare determinate posizioni di responsabilità; il timore di non riuscire a conciliare un lavoro impegnativo con il carico familiare. Questa sensazione deriva proprio da noi stesse, da una paura che viene dal contesto culturale in cui viviamo. 

Mi viene in mente, ad esempio, il lavoro part-time. Un lavoro dove spesso non viene riconosciuta la possibilità di fare carriera. È una modalità di lavoro che appartiene molto più alle donne e, culturalmente, potrebbe non esistere l’idea di poter fare carriera con un lavoro part time.

Questo è un esempio vero.
Noi internamente ci abbiamo lavorato. Infatti, abbiamo delle consulenti che lavorano part time. Sono consulenti di valore che non vengono discriminate per la loro necessità e per la loro scelta. Spesso quello che accade nelle organizzazioni è pensare che una persona che lavora la metà del tempo non possa portare valore e, quindi, non possa far carriera.
Il mondo della consulenza è un mondo molto tradizionale, ancora adesso nelle grandi organizzazioni si è convinti che sia necessario lavorare fino alle 20-21 per creare veramente valore. Questo, storicamente, ha portato ad un’esclusione o ad un’auto-esclusione della componente femminile. Le donne non accettano, non vogliono e non possono sostenere orari di lavoro così prolungati.
Noi, quando è nata Red Public, abbiamo cercato di essere disruptive, di promuovere nuove modalità di lavoro e far vedere che è possibile fare comunque consulenza, lavorando diversamente. Fare, quindi, le consulenti ad alto livello, avere clienti importanti e portare avanti grandi programmi di trasformazione, mantenendo comunque l’individuo al centro.
Per le nuove generazioni che si affacciano sul mondo del lavoro questi sono temi importantissimi. La conciliazione tra vita professionale e vita privata è un concetto fondamentale. Bisogna anche tenere in considerazione come stanno cambiando le esigenze delle nuove generazioni e il loro modo di approcciare il mondo del lavoro. Le ultime generazioni sono, infatti, molto più proattive e molto più demanding. Vogliono avere tempo libero, reputando inconcepibile dover lavorare 12-14 ore al giorno. Un mindset differente di cui le organizzazioni devono tener conto se vogliono attirare talenti, specialmente in un momento in cui selezionare talenti è una delle sfide più grandi che stanno affrontando oggi le aziende.
Penso che la cultura organizzativa e l’approccio al lavoro stia un po’ cambiando. È chiaro che le grandi organizzazioni più tradizionali faranno dei percorsi più lenti ma, inevitabilmente, stiamo andando incontro ad un cambio generazionale. La gen Z, che si sta affacciando al mondo del lavoro, è caratterizzata da persone molto diverse rispetto a chi si affacciava al mondo del lavoro solo 5 anni fa.

Poi volevo farti un’ultima domanda perché so che per voi è molto importante ciò che riguarda la trasformazione digitale. Ti va di parlarcene?

Per noi è un tema importante perché lavoriamo per organizzazioni che affrontano l’ambito della digital trasformation, cercando di supportarle in questi programmi di trasformazione. In particolare, gli strumenti digitali ci danno grandi possibilità anche per le finalità di aumento dell’inclusione. Possedere strumenti che ci permettono di disporre di tanti dati e tante informazioni ci consente di valutare il reale impatto delle politiche di inclusione che le aziende portano avanti.
Tuttavia, quando si parla di inclusione, c’è un tranello in cui le aziende spesso cadono: il pinkwashing: dichiarare, cioè, obiettivi, lanciare campagne di recruiting al femminile per attirare talenti ma senza poi valutarne effettivamente l’impatto.
In questi casi, è carente la componente quantitativa. Mentre le aziende non hanno ancora l’abitudine di valutare questi temi, gli strumenti digitali possono aiutare tantissimo in questo ambito. Esistono, infatti, progetti per analizzare, in modo anonimo, le interazioni sulle piattaforme come Teams o Zoom per comprendere se i new joiner sono coinvolti nell’organizzazione o se stanno incontrando delle difficoltà e per capire se le donne nelle riunioni sono interrotte più spesso degli uomini. Possiamo, quindi, sfruttare gli strumenti digitali per creare un patrimonio di informazioni e di dati che ci supportino anche nell’analisi dell’impatto di ciò che, a livello pratico, stiamo portando avanti.

Mi sembra un’ottima direzione

Speriamo.
Noi siamo consce dell’importanza di questi temi, che diventeranno sempre più rilevanti. Inoltre, come dicevo prima, spesso le aziende sfruttano queste tematiche in modo opportunistico soprattutto quando c’è la necessità di adeguarsi ad una normativa o a degli standard imposti. In questi casi, se le strategie sono approcciate in modo solido e consistente portano dei benefici a 360° e le aziende stesse se ne rendono conto. È, infatti, ormai provato da tante ricerche e da anni di attività in questo campo che avere team con una buona percentuale femminile e, quindi, team ben equilibrati, porti dei vantaggi concreti per l’azienda, aumentandone i ricavi e diminuendo il turnover. È, dunque, fortemente dimostrato che team eterogenei portano beneficio e le aziende che sperimentano situazioni di questo tipo ne vedono i risultati e i benefici.

 

 

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Welfare: una leva per l’empowerment femminile – 4W4I

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